Aleatorio, indeterminato, vago, a volte privo di senso, ma più spesso senza durata. Tutti questi aggettivi, spesso utilizzati per raccontare alcuni momenti dell’arte contemporanea, forse hanno sfumature di significato non sono così male.
Sfumature che anzi potrebbero invitarci a fare una riflessione interessante in tempi di Natale e di zone rosse. Il filo conduttore di questi pensieri, a questo punto, dovrebbe avere a che fare con una parola sola che provi a comprenderli tutti e che potrebbe suonare come “obsolescenza”. Un termine da trattare in modo diverso, accettando semplicemente di cominciare in modo propositivo, assegnandole anche una valutazione in termini positivi.
Come tutti sappiamo, i materiali, le tecniche e i linguaggi utilizzati nella realizzazione di opere d’arte contemporanea, a partire dall’inizio del Novecento, sono caratterizzati e destinati a non durare in eterno e ad essere superati velocemente.
Ancora oggi, il problema della durata dei materiali non sembra essere di particolare rilevanza per gli artisti; ovviamente la questione è avvertita maggiormente dalle gallerie, dai musei o dagli enti responsabili della destinazione in luoghi aperti di opere d’arte, ma non utile per gli artisti.
Dall’altra parte, le opere d’arte classica sembrano avere un’unica costante: sono durate per millenni e ancora oggi continuano a far sentire la loro presenza. Cosa è successo? Che il valore della durata, così come molti altri valori che hanno costruito i secoli passati, sono definitivamente sfumati.
Ci si potrebbe chiedere se la perdita del valore dell’eternità dei materiali riguardi di conseguenza anche le opere stesse. Come a dire che, visto che non dura allora ha scarsa rilevanza. Noi però sappiamo che l’arte contemporanea spesso ci chiede di rinunciare ai cliché. Ci ricorda che a partire dalla seconda metà del ‘900, l’opera d’arte contemporanea sta vivendo un profondo cambiamento genetico e dunque sta perdendo quell’identità fissa che ci sarebbe piaciuto assegnarle.
L’opera va assumendo un’«identità instabile», come chiarisce il noto critico Nicolas Bourriaud, perché gli artisti si muovono volentieri da una disciplina all’altra, da un supporto all’altro, senza introdurre la benché minima gerarchia tra un’azione effimera e una scultura, un video, un’installazione o un intervento gestuale.
Insomma, sta chiedendo a tutti noi di assegnare al termine obsolescenza una valenza positiva e non negativa, allo scopo di attenderne esiti insperati. Secondo questa prospettiva, l’accettare che qualcosa invecchi, si deteriori e finisca, significa permettere che uno strumento, un linguaggio, una tecnologia, una forma, proprio nel momento della loro obsolescenza, sappiano liberare nuove energie e inediti punti di vista.
Ciò che è aleatorio e senza durata, può essere considerato il dono più emblematico, perché la missione è quella di contenere e rendere possibile qualcosa che balza perfino al di là del suo naturale sviluppo storico, promettendo novità.
Insomma, gli orizzonti del linguaggio potrebbero continuare ad ampliarsi, come possiamo vedere nella storia dell’arte contemporanea, specie di quella che ci assicura che l’attenzione non deve essere messa sull’utilizzo di nuovi media, quanto sul tentativo di reinventare i media che ci sono già, proprio perché in questi è presente una potenza “vacillante” che può emergere ed essere trasmessa all’osservatore.
Proviamo a pensarci. Siamo tutti presi dall’allargamento che i nuovi media producono. Siamo tutti proiettati in avanti grazie al progresso dei media, che perdiamo di vista quello che del passato questi media riprendono. Alcuni artisti ci hanno insegnato che non ci si può adagiare sui mezzi esistenti e nemmeno lasciarsi sedurre dalla loro evoluzione.
È l’obsolescenza dei linguaggi dell’arte contemporanea ciò che dobbiamo guardare. Un’obsolescenza che non solo ci racconta – proprio come farebbe uno specchio – il veloce cambiamento della società, ma che ci dice il modo per trarre da questo la spinta per reinventare i mezzi di cui dispone.
La continua ricerca e ossessione del nuovo al solo fine di stupire sta forzando il limite dell’opera d’arte e della sua comprensione. Stare al passo con il nuovo non è per tutti semplice, perché è complicato modificare velocemente il nostro modo di percepire le novità per poter riuscire ad afferrarle e comprenderle.
E qui emerge di nuovo il solito problema: non riusciamo a comprendere le opere d’arte contemporanea e ci si duole di ciò, quando non ci si lagna. Non consideriamo invece che la comprensione dell’opera d’arte non è mai stata intuitiva e che quella dell’opera d’arte contemporanea è sempre più complessa. Quando poi alcune opere hanno perfino voluto porsi come oggetto di conoscenza, abbiamo dovuto chiedere ai filosofi, i quali ci hanno risposto che l’opera non ci viene data tale e quale.
Per individuare un testo come poesia, dobbiamo infatti risalire alla preconoscenza che ci viene trasmessa dalla tradizione, dalle conoscenze che già possediamo e padroneggiamo. L’opera d’arte visiva dunque non è un oggetto che possiamo comprendere intuitivamente perché non sempre è chiaro cosa sia.
È così che alcuni filosofi ci hanno garantito che per comprenderla è necessario entrare nel vivo di un processo di trasmissione storica, mentre altri, al contrario hanno detto che per la comprensione non serve affatto avvalersi della tradizione.
Gli artisti allora hanno cominciato a dirci che la forza della riflessione sta in ciò che si pensa esattamente in questo momento e che è necessario rendersi autonomi dalla tradizione per svilupparsi pienamente. Questo è ciò in cui credono moltissimi critici d’arte.
A noi non resta che ripensare a ciò che è privo di senso e di utilità e provare a sentire cos’altro ha da raccontarci. Provare a pensare a quel momento nel quale l’uomo che si trova di fronte a qualcosa che gli sfugge e che non riesce a definire e a rinchiudere in un concetto. Pensare a come si entra in crisi e ci si chiede: ma questa è arte oppure no?
Pensare che prima di rispondere basterà usare in altro modo il concetto di obsolescenza, accettando che possa esistere qualcosa che non è come vorremmo. Che a volte non si può nemmeno farle una domanda netta. Che è inutile parlare di limiti, di confini, di frontiere.
A noi, fin troppo abituati a ragionare per opposizioni: l’arte da una parte e la non arte dall’altra si pone il dilemma dell’aleatorio. Non è vero che dove c’è l’una non può esserci l’altra. Il ragionamento va in tutt’altra direzione e il confine tra le due non è più così netto, anzi.
Matilde Puleo