Disinformazione e insulti: la disastrosa intervista di Damilano a Bernard-Henri Lévy

di Andrea Giustini

Lunedì, sulla striscia di Rai Tre “Il Cavallo e la Torre”, Marco Damilano ha intervistato il filosofo francese Bernard-Henri Lévy in merito alle sempre più vicine elezioni politiche del 25 settembre. Non si trattava però di un’intervista in generale sulle urne. “La Pacchia”, nome dell’episodio andato in onda, era invece incentrata specificamente sulla sola destra italiana. In particolare al filosofo è stato chiesto un parere su Matteo Salvini e Giorgia Meloni.

Le parole, i toni e le critiche espresse da Lévy hanno suscitato diverse polemiche. Alcuni hanno parlato di violazione della par conditio in periodo elettorale. La leader di Fratelli d’Italia è intervenuta con un post Facebook sostenendo addirittura che il filosofo francese abbia paragonato l’Italia, in caso di vittoria della destra, “ai peggiori regimi”, e che abbia detto che l’eventuale voto degli italiani a Fratelli d’Italia o Lega non vada rispettato. E’ davvero così? Si procederà qui ad un’analisi completa dell’intervista condotta da Marco Damilano.

Nel titolo di questo articolo la si descrive come “disastrosa”. Chiariamo che non è per fare retorica, né per denigrare in alcun modo il giornalista, a cui naturalmente va il massimo rispetto da parte della Redazione di ArezzoWeb Informa. Purtroppo però è quanto si evince concretamente, poiché non solo, come vedremo, far intervenire il filosofo francese in merito alle nostre elezioni non è stato utile da un punto di vista informativo, semmai controproducente, ma alla fine è risultato pure poco giustificato, per non dire fuori luogo.

L’intervista integrale è disponibile a questo link Youtube e nella pagina dedicata al programma “Il Cavallo e la Torre”, nel sito della Rai.

Le domande a Bernard-Henri Lévy

La prima domanda di Marco Damilano a Bernard-Henri Lévy era se conoscesse Matteo Salvini e Giorgia Meloni, e cosa ne pensa. «Le faccio vedereha detto il giornalista introducendo il tema – i due politici italiani in campagna elettorale, e poi ne parliamo». La regia ha così mandato in onda un video per ciascuno dei due leaders. Per Salvini uno spezzone del comizio a Pontida (18 settembre), per Meloni invece uno di quello a Milano (11 settembre).

Il filosofo risponde di non conoscere Giorgia Meloni e di aver solo dibattuto con Salvini un paio di anni fa, in televisione. Salvini viene apertamente insultato: descritto come patetico e ridicolo: «Francamente l’ho trovato patetico e ridicolo, un personaggio di una debolezza straordinaria». Infine Lévy aggiunge che l’Italia, “culla dell’Europa e dell’idea repubblicana”, merita meglio di Salvini e Meloni”, e che quello che si sta preparando oggi per il paese è “una cosa molto triste”.

La seconda domanda di Damilano invece riguardava i timori dell’Europa: «Perché è preoccupata di loro? Perché l’Europa pensa che la pacchia sia finita?». Lévy non risponde e devia sul fatto che lui è tornato da poco dall’Ucraina: «In Ucraina non c’è nessuna pacchia – ha detto Lévy – c’è l’orrore».

La terza domanda infine era se l’Europa della sinistra, delle elites e dei “liberali” avesse responsabilità nella crescita del populismo e nel fatto che l’elettorato oggi si rivolge ad esso. Anche a questa domanda Bernard-Henri Lévy non risponde e devia altrove. Si riporta la risposta esatta, da traduzione effettuata in diretta:

«Che cos’è questa storia? In cosa l’Europa dei tecnici sarebbe responsabile della corruzione degli uomini di Salvini? Ci sono uomini traditori della patria, dell’Italia, che negoziano il futuro del Paese nel retrobottega con inviati dell’Ambasciata russa. Avete Salvini che prepara segretamente un viaggetto a Mosca per negoziare il proprio futuro politico. Mi venite a dire che è colpa dei tecnici? E’ una vergogna, nessuno è responsabile dell’ignominia di Salvini. Del fatto che Berlusconi abbia detto di Putin, terrorista e criminale di stato, che era un umanista, un uomo di grandi qualità morali. In cosa Draghi e l’Europa sono responsabili di questa infamia detta da Berlusconi? Smettiamola con questa retorica. Oggi c’è una tentazione fascista in Europa, in particolare nei prossimi giorni in Italia. Bisogna prenderla di petto, non andare a cercare responsabilità o complotti occulti».

Fermiamoci un secondo e analizziamo quanto detto fin qui.

Analisi

Solo la prima risposta di Lévy fa cadere il senso e lo scopo informativo dell’intera intervista. Se il filosofo francese non conosce Giorgia Meloni, evidentemente né come politica né come persona, e con Salvini ha solo scambiato qualche parola in diretta, non si capisce a quale titolo Damilano lo abbia invitato. Come può esprimersi su di loro politicamente? Come può arrivare a dire che “l’Italia merita meglio di Salvini e Meloni”? Le affermazioni forti che nel Paese si starebbe preparando “qualcosa di triste” o che addirittura vi sarebbe una “tentazione fascista” risultano quindi completamente ingiustificate e infondate, oltre che denigratorie. Anzi: essendo dette da chi non ha la minima cognizione né delle persone né dei loro programmi politici, potrebbero ragionevolmente essere definite disinformazione.

C’è poi da notare che l’intera intervista, sia per come l’ha impostata Damilano che per le risposte di Lévy, non è stata minimamente incentrata sulla politica, ma solo sul discredito dei due leaders italiani. Damilano non chiede a Lévy di esprimersi sulle idee di Fratelli d’Italia. Chiede subito cosa ne pensa “di Giorgia Meloni”. Lo stesso filosofo non critica mai le idee di Matteo Salvini, si accanisce solo sulla sua persona in vari modi: gli dà del patetico e insinua che complotti con un nemico, la Russia. Stessa cosa fa con l’accenno a Berlusconi: come politico Lévy lo ignora completamente, cerca di screditarne la persona accostandolo a Putin, tramite una sua sola affermazione riportata senza contesto.

In generale i ragionamenti del filosofo risultano contraddittori e fuori luogo. Da un lato Lévy esprime l’esigenza di smettere con una certa “retorica” e però svia retoricamente dalle domande di Damilano, deviando su argomenti che non c’entrano niente: primo fra tutti quello dell’Ucraina che chiaramente non ha nulla a che fare coi timori dell’Ue per Salvini e Meloni. Dall’altro, parlando dei tecnici europei afferma che non bisogna cercare responsabilità occulte o complotti, mentre però parlando di Salvini sono proprio complotti quelli che cerca di delineare.

Il voto che a volte “non va rispettato”

Bernard-Henri Levy risponde parzialmente nel merito a una sola domanda, in modo però problematico. Cercando di far tornare il filosofo sul tema, Damilano prova nuovamente a chiedere: «Proprio perché non ci sono poteri occulti, perché l’elettorato fa altre scelte? – ed aggiunge – L’elettorato va sempre rispettato in democrazia, credo». Si riporta la risposta esatta di Lévy, da traduzione effettuata in diretta.

«No, non bisogna sempre rispettare l’elettorato. Quando gli elettori portando al potere Benito Mussolini, Adolf Hitler o anche Vladimir Putin, la loro scelta non è rispettabile. La democrazia sono due cose: volontà popolare, certo, ma anche il rispetto di alcuni principi fondamentali. Un fascista che arriva al potere attraverso le urne non si converte automaticamente in democratico. Ci vogliono due condizioni: i principi della civiltà da una parte e dall’altra il primato del suffragio popolare. Le due cose possono non andare insieme. […] Questo è il cuore del ragionamento populista che sta così facendo del male in Europa».

Analisi

La risposta di Lévy è solo parzialmente in tema. Infatti Damilano gli aveva sì chiesto del rispetto del voto in democrazia, ma non ne parlava in generale. Si riferiva all’attuale e concreta situazione in cui “l’elettorato fa altre scelte”. Il senso ovviamente era che anche se “il popolo” domenica desse il voto ai “populisti” Meloni o Salvini, questo andrebbe democraticamente rispettato. Il filosofo francese invece risponde parlando del voto in generale, paventando il caso estremo e ben poco probabile dove venga dato a personaggi palesemente antidemocratici e negativi: Mussolini e Hitler.

Il risultato è di fatto un paragone infondato degli attuali candidati di destra italiani a quei dittatori, e quindi una delegittimazione non solo di loro come politici ma anche del voto dei cittadini italiani che li scegliessero alle urne. Paragone che non è indiretto, come potrebbe sembrare. Si potrebbe dire infatti che il filosofo non dice apertamente che votare Meloni è come votare Hitler, ad esempio. Ma alla luce dell’intera intervista risulta diretto, poiché apice di una narrazione denigratoria mandata avanti fino a quel momento: Lévy infatti è partito dando l’immagine falsa di “una tentazione fascista in Italia”.

Le affermazioni del filosofo risultano gravi e prive di valore: perché fatte da una persona che ha ammesso subito di non conoscere la materia di cui parla; perché fatte in diretta presso la principale emittente pubblica senza il minimo contraddittorio; perché le persone accusate e i loro rispettivi partiti concorrono legittimamente alle elezioni, nel rispetto delle leggi, dei principi e dei valori costituzionali ed europei.

Il paragone imbastito inoltre non è altro che una fallacia logico-argomentativa, che un filosofo dovrebbe conoscere molto bene e che, in quanto ragionamento sbagliato, non dovrebbe utilizzare per le proprie argomentazioni: la “Reductio ad Hitlerum”.

Conclusione

Marco Damilano si è prontamente dissociato dalle affermazioni denigratorie e fuori luogo di Bernard-Henri Lévy, rendendosi conto che potevano avere gravi ripercussioni. Tuttavia ha fatto poco per riequilibrare il contenuto e il tenore del programma. Su un simile esito hanno forse influito fraintendimenti linguistici, a causa delle traduzione di mezzo, e problemi tecnici, occorsi in alcuni momenti. O forse la stessa notorietà dell’ospite ha in qualche modo intimidito il giornalista nel provare a contraddire quanto affermato dall’ospite. Sta di fatto che Damilano ha permesso a Lévy, che nulla ne sa, di parlare della situazione italiana in termini di “tentazione fascista” e simili, senza apporre alcuna precisazione puntuale. Ciò significa dare a intendere ai telespettatori che tale narrazione possa corrispondere al vero, e quindi potenzialmente fare disinformazione.

Ma lo stesso uso da parte di Damilano della parola “populisti” o “populismo” risulta in realtà problematico, perché ad un’attenta riflessione non è imparziale: è esso stesso potenzialmente in violazione della par conditio. La parola, nonostante l’uso a volte anche accademico che ne viene fatto oggi, è prettamente denigratorio, privo di valore o contenuto politico concreto. Essendo spregiativo, se usato per descrivere uno dei due poli in una competizione elettorale, delinea di fatto una situazione dove ci sarebbero dei “buoni” e dei “cattivi”.

Già molti anni fa il grande politologo Norberto Bobbio, in un di editoriale, ne parlava in questi termini: «Populismo viene sempre usato con una connotazione negativa. Il comunismo è buono per il comunista, cattivo per il liberale. E viceversa. Il populismo invece è sempre cattivo. Nessuno oserebbe presentarsi al pubblico dicendo “io sono un populista”. Populista è sempre l’altro, l’avversario. Populista suona come il peggiorativo di “popolare”».

Questo genere di visione manichea traspare del resto anche dalla formulazione di alcune domande fatte da Damilano. Il giornalista ha demarcato bene la parte politica che ha identificato con la sinistra, i tecnici, le “elites“, e in sostanza gli europeisti, da quella dei così detti “populisti”. Oppure cha chiesto a Lévy perché, non essendoci poteri occulti, “l’elettorato fa altre scelte”: formulazione che può far intendere a chi ascolta che ci sia una parte giusta, che andrebbe scelta, e un’altra invece ingiusta, che in condizioni normali andrebbe evitata.

Fratelli d’Italia ha annunciato un esposto all’Agcom. A questo punto vedremo nei prossimi giorni quale sarà il parere in merito dell’Autorità garante delle comunicazioni.