A sorpresa, mi accorgo che tra i post su instagram o tra le cartoline che potrei scrivere della città che mi ospita, c’è una nella quale vorrei che comparissero sia i salotti più belli della città che i quartieri più periferici e problematici. Non tanto per dare utopicamente conto di ogni aspetto di Arezzo quanto più modestamente per vedere che se è vero che le città sono fatte anche dagli occhi di chi le guarda, la cartolina che scriverei sarebbe alla fine un esperimento su me stessa. Un esperimento che mi permetterebbe di andare a vedere come la penso! Vedere dietro questi occhi, le speranze, le paure, i desideri e i timori di vario tipo, che interagiscono con la percezione che ho della città e di ciò che me la condiziona. Ovviamente ne verrà fuori una visione parziale e soggettiva, ma è proprio questo ciò che mi stimola e su cui abbiamo scelto di lavorare con la redazione.
Una cartina per iniziare
Scelgo di partire dalla cartina non per definire dei confini e costringere ognuno a collocarsi all’interno o all’esterno, ma per aiutarmi a mettere in rilievo il modo in cui vedo ciò che vedo.
Devo dire che l’idea di incorporare i luoghi è molto affascinante. Questa possibilità che mi concedo cioè di prestare ascolto all’esperienza del mio corpo, m’insegnerà anche come leggere e interpretare i significati simbolici che abbiamo conferito allo spazio. Potrebbe perfino spiegarmi la funzione che i luoghi svolgono nello strutturare i nostri rapporti interpersonali all’interno e all’esterno delle abitazioni. Del resto già la storia – mediante l’analisi delle componenti socio-culturali dell’architettura – ci racconta come e perché è avvenuta l’appropriazione delle risorse; ci dice chi e come ha gestito i corsi d’acqua di questa città, chi ha deciso le vie di comunicazione e ogni tipo d’altra azione sociale.
Comincio col frequentare i luoghi comuni
Questo vecchio gioco di parole mi riporta alla mente la necessità di guardare i titoli della cronaca locale, anche di giornali come questo, per partire dalla semplice considerazione del fatto che stranieri e italiani ovunque, come anche ad Arezzo, abitano lo stesso territorio. Il primo luogo comune che mi viene in mente è questo: non tutti coloro che abitano in questa città possono contare sul passaggio fluido e immediato di frammenti di memoria sociale o collettiva riferita ai luoghi che vengono definiti “pubblici”, degli spazi in comune.
I ragazzi stranieri che conosco ad esempio sono arrivati qui in tempi recenti – ma non sono gli unici a non conoscere i luoghi pubblici, a ignorare quali significati sono stati associati a quei luoghi, le ragioni della loro denominazione, gli eventi o i simboli che essi rappresentano. A volte siamo in tanti a frequentare i luoghi comuni senza farci troppe domande. Poi però siamo pronti a giudicare pontificando su quello che dovrebbe o non dovrebbe esserci.
Il viandante e chi “vola”
A proposito dei modi di guardare una città, un amabile antropologo come Michel de Certeau dice che la città si può vedere in due modi. C’è lo sguardo di chi si pone lontano e al di sopra delle cose e pretende il colpo d’occhio: questo è lo sguardo sulla città che viene fatto dal grattacielo. E poi c’è lo sguardo di chi scende dall’alto verso il basso per mescolarsi e immergersi nella vita che fluisce e circonda: e questo è lo sguardo “rasoterra” di chi cammina e percorre le strade e le piazze.
Lasciando stare chi vuole vedere le cose dall’alto perché ha bisogno di essere sbrigativo, io direi che ad una prima occhiata rasoterra, mi sembra che nel centro storico di Arezzo sia possibile osservare, in alcuni spazi pubblici urbani (in primo luogo le strade e i marciapiedi) alcune caratteristiche urbanistiche nelle quali sono visibili comportamenti e azioni di fiducia reciproca tra cittadini.
Ci sono cioè usi del suolo, condizioni di mobilità e di traffico per capirsi che stimolano la commerciante ad essere la persona a cui lascio l’incombenza di ritirarmi i pacchi che mi arrivano quando non ci sono, semplicemente perché questa è una via della città dove il traffico ci lascia qualche momento di respiro, dunque possiamo non dover urlare se lei è dentro il suo negozio o se ci prende gusto alla chiacchiera, possiamo fermarci un po’ di più sulla soglia di casa mia senza timori.
Direi perfino che la fiducia nasce col tempo, dall’infinità di piccoli contatti che si svolgono in pubblico proprio sui marciapiedi o direttamente sulle strade della città, specie in quelle che sono più collegate alle principali piazze. Da Via Mazzini a via Cavour quando entrambe confluiscono in piazza; così come da via Madonna del Prato al Duomo o da via del Saracino a Piazza della Badia è possibile fermarsi a chiedere un consiglio al barista o darne uno al giornalaio; scambiare opinioni con gli altri clienti del panificio, ascoltare le lagnanze qualunquiste del ristoratore e nel frattempo fare un cenno di saluto a due ragazzi che se ne stanno sulla soglia di casa a bere una birra.
Da queste vie si può guardare la gente che passa, in attesa di essere chiamati a cena; ammonire i ragazzi anche se non sono figli nostri; aver notizie di un posto di lavoro dal negoziante di ferramenta e così via. Questi contatti appaiono per lo più assolutamente banali, ma nell’insieme non lo sono affatto. Il risultato di questi contatti pubblici occasionali, a livello locale è la formazione di una sensibilità per il carattere ‘pubblico’ degli individui. Tutti si accorgono di vedere e di essere visti e tutti noi avvertiamo che questo crea un tessuto di rispetto e di fiducia essenziali per i momenti di bisogno individuale o collettivo. Ce ne siamo accorti durante la quarantena.
D’altra parte, la mancanza di questa fiducia in una strada urbana è un disastro, giacché è impossibile suscitarla in modo organizzato.
È solo una questione di parole?
Inoltre c’è di più: questa fiducia data e ricevuta non implica alcun impegno privato. È questa caratteristica a renderla preziosa.
A questo proposito, mi sembra interessante il significato che possiamo assegnare a due parole molto sentite in questi anni: partecipazione e controllo.
Controllo ovviamente negli spazi urbani; o meglio, forme di controllo negli spazi pubblici, che cambiano le forme di relazione tra le persone e le caratteristiche degli spazi urbani.
A queste si collegano altre parole come privacy e socievolezza che sempre in questo spazio del centro storico si traduce nell’idea che la privacy prenderà forma nello spazio privato dell’abitazione, mentre la socievolezza non sappiamo bene cosa sia. Sfrenata voglia di riempire di calci le automobili e i cesti della spazzatura – soprattutto di sabato – oppure un’altra cosa?
Io penso sia qualcosa come una sommatoria di tutte queste parole insieme e così: col sorriso sulla bocca penso a una specie di “partecipazione-al-controllo-negli-spazi-pubblici-di-tutti-noi”!
Certo, detta così è un po’ ridicola, anche se in realtà sto pensando a quella socievolezza che permette di accorgersi che la gastronomia del Cervo ad esempio, questo mese non è chiuso per ferie, ma cede l’attività. Chiude definitivamente. Si trasferisce, uscendo dal centro storico.
Un luogo frequentato per le sue leccornie, che durante il lock down distribuiva cibo con la saracinesca a metà mantenendo lo spirito del farmacista mai dimenticato, cede il posto a qualcos’altro. Un luogo la cui insegna viene continuamente fotografata dai turisti. Chiude un esercizio commerciale dentro il quale sono entrata due o tre volte per comprare cose sfiziose, ma certo questa chiusura significa altro.
Significa non avere un punto di riferimento, non contare su una parte della storia della via e significa fare due calcoli sulle conseguenze del covid che vedremo a settembre. Per chi abita da queste parti chiude un “posticino” da consigliare agli stranieri, un sostituto segreto quando non ti andava di cucinare e perfino un’indicazione stradale, quando per mille volte abbiamo detto “ecco quando arrivi in piazza, gira a sinistra al cervo e sei arrivato”.
La socievolezza di cui sto parlando cioè è quella dove si gioca la partita dell’osservazione e della cura. Quella cura che nelle città difficili e in alcuni quartieri palermitani, napoletani e milanesi ad esempio, hanno declinato con consapevole partecipazione, accettando di sperimentare la cosiddetta progettazione comune.
Questa socievolezza mi piace perché mi sembra fatta da differenti forme di stare insieme, da pratiche sociali quotidiane (direbbe il mio antropologo) come ad esempio la consegna delle chiavi di casa mia a persone di fiducia nel quartiere, lo scambio di favori, la cura dei bambini, il silenzio autoimposto se è notte fonda e così via.
Quel che un po’ mi dispiace è che questo continuo controllo dell’escluso (direbbe il filosofo) realizzato dalla fitta di rete di telecamere di video sorveglianza, che registrano persone e comportamenti indesiderati, sta riducendo la possibilità che in città esistano spazi davvero ‘pubblici’ e questo è a mio avviso una perdita di non poco conto.
di Matilde Puleo