La prima frase del romanzo Yoga di Emmanuel Carrère pubblicato in Italia da Adelphi editore, delinea l’intero libro.
Quindi non rivelo nulla dicendo che l’autore cerca di scrivere quello che chiama “un piccolo libro sottile sullo yoga“: uno lavoro di scrittura durato quattro anni, dal terrorismo alla crisi dei rifugiati, dalla perdita del suo editore ad una depressione malinconica così profonda da essere ricoverato in un ospedale.
E’ “anche” un libro sullo yoga, sui modi in cui la meditazione assume significato, prendendo in prestito una frase di Lenin, come fa Carrère, “lavorare con il materiale disponibile“.
Il libro inizia con Carrère che lascia il suo appartamento di Parigi per un ritiro spirituale nella Francia centrale durante il quale ha intenzione di trascorrere dieci giorni affinando le sue capacità di meditazione, riproponendo domande sul suo ego.
Non gli sarà consentito alcun contatto con gli altri, non con gli altri ospiti – tutti sono tenuti a osservare un codice di silenzio – non con gli estranei per telefono, lascia infatti il suo a casa.
Fin dall’inizio si interroga sugli uomini con cui si trova a condividere questa esperienza.
“Chi è single, chi è stato abbandonato, chi è povero o infelice, chi è emotivamente fragile, chi sembra forte, chi rischia di essere sopraffatto dalla vertigine del silenzio“.
Ma soprattutto si interroga su se stesso, sulla sua capacità di mantenere la rotta, su cosa significhi tutto questo.
Emmanuel Carrère è tra gli scrittori francesi più famosi.
I suoi libri più acclamati sono gli scritti che prendono come soggetto se stesso, la sua vita interiore, le sue esperienza romantiche e si spingono verso l’esterno per comprendere temi più ampi, come la perdita e l’abbandono.
Romanzi spesso non facili.
In Yoga, fin dalle prime pagine, Carrère è profondamente consapevole della corda tesa su cui sta camminando.
Ben conscio della sua compiacenza narcisistica, è pronto a prendere in giro i suoi compagni di avventura quanto se stesso, nella ricerca di una Emmanuel aggiornato pronto ad inondarsi di meraviglia e serenità.
Anche se pare affrontare la pratica di meditazione con ironico distacco, si respira tra le pagine un sentimento genuino ed un profondo rispetto per i suoi maestri di tai chi e Iyengar.
Nel giro di poche pagine fa riferimento a Nietzsche, Freud, Diogene, Glenn Gould e B.K.S. Iyengar appunto, per giungere a quello che potrebbe essere il tema centrale ovvero che la meditazione, la vera meditazione è come scrivere.
“Scrivere tutto ciò che ti passa per la testa senza artifizio è esattamente lo stesso che osservare il tuo respiro senza modificarlo“.
Cercare insomma di scrivere e trascrivere ciò che viene in mente.
Questo può sembrare semplice – Thomas Bernhard ricorda che “tutto quello che devi fare è inclinare la testa e far cadere tutto su un foglio di carta” – ma richiede sia pazienza che velocità.
Se questa combinazione si rivela sfuggente, non è solo a causa della sua difficoltà intrinseca.
In un libro che aspira a raccontare i pensieri mentre accadono, alla fine si è quasi obbligati a censurare, distorcere e dissimulare.
Come il tai chi, il modo confessionale di scrittura di Carrère, abilmente catturato nella traduzione di Lorenza di Lella e Francesca Scala, richiede di muoversi “il più lentamente ma anche il più velocemente” possibile, in una sorta di “meditare e uccidere“.
Ha trascorso anni nella convinzione che poesia e meditazione siano le arti più compatibili alla ricerca di se stessi.
Ma è anche turbato dal sospetto che il peso dell’esperienza non favorisca i maestri spirituali.
“Perché sembra esserci più contenuto di verità in Dostoevskij che nel Dalai Lama?” si chiede.
“Se dovessi mettere Orwell contro Ram Das, probabilmente Orwell vincerebbe?” aggiunge.
Fondamentalmente, la domanda è se la “saggezza della meditazione in fondo non sia troppo saggia”
Osservare la propria respirazione, seduto immobile su un cuscino, è quel che si chiama meditare, pratica sempre più diffusa e che avrebbe dovuto essere l’unico argomento di questa storia se solo la vita non l’avesse trascinata in mari più burrascosi.
La vita che Emmanuel Carrère è stata trascorsa in gran parte a combattere contro quella che gli antichi chiamavano melanconia.
C’è stato un momento in cui credeva di aver sconfitto i suoi demoni, di aver raggiunto uno stato di serenità.
Solo che quei demoni erano ancora in agguato, e quando meno se l’aspettava gli sono piombati addosso.
E non sono bastati i farmaci, ci sono volute quattordici sedute di elettroshock per farlo uscire da quello che era stato diagnosticato come “disturbo bipolare di tipo II”.
Yoga quindi non è il libro arguto e accattivante su una disciplina di meditazione ma è molto di più.
Emmanuel Carrère riesce ad ammaliare il lettore con la favolosa fluidità della sua prosa e con quel tono amichevole, fraterno, che è soltanto suo, di raccontarsi quasi che si rivolga, personalmente, a ciascuno dei suoi lettori.
I libri di Carrère sono pieni di contenuti e di verità.
Raggiungono un’alchimia unica tra eventi reali e costruzioni fantasiose in cui viene fatto uso di tutti i tipi di dispositivi romanzeschi.
Siamo testimoni, insieme a lui, di catastrofi piccole e grandi, personali e collettive.
Il dono di Carrère è quello di mettere in relazione tutto con l’intimità di un diario.
Yoga si muove con disinvoltura tra osservatore e partecipante, tra piccoli momenti raccolti e realtà incommensurabili.
Nell’esplorare la propria coscienza, sembra esplorare anche la nostra.
A metà del romanzo però non solo la sua scrittura ma anche la sua memoria, generano parole che sembrano non essere più in grado di mediare l’esperienza.
Per trasmettere la profondità della sua miseria, ricorre a citare a lungo un articolo in cui il giornalista descrive di essere stato così consapevole della sofferenza di Carrère da essere tentato di abbracciarlo.
Se i libri di Carrère traggono il loro contenuto di verità dalla convinzione che la letteratura è il luogo in cui non menti, in Yoga riconosce che “sebbene possa ancora scrivere senza ipocrisia, non può affermare che per questo libro quello che ha detto con orgoglio di molti altri ovvero è tutto vero”.
Se Carrère non fa mai facili paragoni tra la sua sofferenza e quella degli atri, sottolinea un problema morale centrale ovvero che chiedere agli altri di raccontare le loro storie non raccontando le nostre è un affare troppo impari.
Abituati a sentirci come se fossimo in un dialogo intimo con Carrère, non possiamo che amare le pagine del libro.
Allo stesso tempo percepire che la nostra sofferenza talvolta non è meno orribile come i nostri momenti di lucidità non meno duramente guadagnati.
Dai primi granelli di crema da barba all’epilogo sconvolgente, Yoga è un promemoria penetrante sulla linea sottile e mutevole che distingue il fatto dal miraggio, la solidità della mente dallo squilibrio.