a cura di Roberto Fiorini
L’ultimo uomo bianco di Mohsin Hamid edito da Einaudi nella magnifica traduzione di Norman Gobetti è una favola ipnotica.
Quando apriamo la prima pagine di questo romanzo incontriamo lettere e punteggiatura, ma siamo noi lettori che poi creiamo fin da subito persone e luoghi, panorami e suoni.
Un libro che ho percepito come un atto di collaborazione profondo, di speranza, tra l’autore ed il lettore, in un mondo che sembra davvero entrato in un periodo oscuro, e dove i libri rappresentano piccole luci che ci ricordano che possiamo ricostruire insieme un mondo migliore soltanto se lo vogliamo.
Mohsin Hamid è cresciuto in Pakistan ed in seguito ha frequentato la Princeton University e la Harvard Law School, lavorando per diversi anni come consulente aziendale a New York.
Il suo primo romanzo, Nero Pakistan, tradotto in Italia da Piemme, ha vinto il Betty Trask Award, è stato finalista nel PEN/Hemingway Award ed è stato un Notable Book of the Year per il New York Times.
Suoi articoli e saggi sono apparsi su Time, The New York Times e The Guardian.
Un grande successo internazionale è stato anche il romanzo Il fondamentalista riluttante dal quale la regista Mira Nair ha realizzato nl 2012 il film – The Reluctant Fundamentalist.
Il mondo si sta frammentando in nazioni, clan e tribù reciprocamente sospettose.
Il mondo sarebbe potuto diventare un posto migliore, fino al 2020 e alla presa di coscienza che non sarebbe stato così.
E se i bianchi si svegliassero improvvisamente con la pelle nera, costretti così a confrontarsi con verità scomode sul potere e sull’identità?
Una mattina Anders, un uomo bianco, personal trainer in una anonima palestra di una città indefinita, si sveglia e scopre che la sua pelle è diventata di un colore marrone scuro.
Così inizia il nuovo romanzo di Mohsin Hamid, ed a quanto pare, non è un caso isolato poiché altre persone in città iniziano a cambiare, tra cui Oona, un istruttrice di yoga.
Anders sente di aver subito un’ingiustizia, teme che tutto gli sarà portato via, incluso se stesso e si scaglia contro la propria immagine allo specchio, si rimette a letto sperando che quell’uomo scuro se ne vada.
Intanto chiama al lavoro per dire che è malato, molto malato.
La violenza esplode inevitabilmente intorno a lui.
Bande di vigilantes bianchi terrorizzano la città, mentre alcuni rifiutano ostinatamente di accettare la fine del colore bianco della loro pelle.
Mohsin Hamid ci invita fin dalle prima pagine a ricoprire la capacità di trascendere le nostre visioni limitate l’uno dell’altro, scrivendo un romanzo sul vedere, sull’essere visti, perdere e lasciarsi andare.
La perdita di privilegi che deriva dall’essere percepiti come bianchi, e dal non essere più in grado di vedere il mondo dall’interno della bianchezza, sono soltanto alcune delle ansie raccontate da Anders.
L’immediatezza dell’apertura del romanzo può evocare Metamorfosi di Franz Kafka, ma lo stile di prosa è molto più simile a Josè Saramago.
Le sue frasi, spesso lunghi paragrafi, sono impostate su un ritmo ininterrotto.
A volte si leggono quasi come una parabola.
Il lettore si muove rapidamente dalle prime rappresentazioni ipnotiche dello scontro sociale alla tenerezza della ricerca di nuove identità, di un nuovo se stesso.
La decisione di Hamid di mettere in primo piano i temi della perdita e del lutto permette al romanzo di parlare in modo incisivo della condizione connessa al colore della pelle.
Il caos circostante si intravede soltanto da lontano.
Non abbiamo mai un senso preciso di quando o dove gli eventi stanno avendo luogo, e siamo lasciati ad orientarci attraverso descrizioni.
Sappiamo che una città vicina ha edifici molto alti, che ci sono lezioni di yoga, telegiornali e nomi eurocentrici, ma la nostra attenzione rimane focalizzata soltanto sui rapporti tra Anders, Oona e i loro genitori.
Il padre di Anders è malato di cancro.
La madre di Oona è una teorica della cospirazione e crede che i cambiamenti siano indicativi di un complotto più ampio per sradicare i bianchi.
I momenti di Oona con sua madre sono raccontanti con sensibilità, così come i giorni in cui Anders visita suo padre morente.
Anders è turbato dalla possibilità che suo padre possa non riconoscerlo, ora che la sua pelle è cambiata.
Ogni personaggio affronta la perdita del colore della propria pelle in modo diverso.
La madre di Oona, ad esempio, mantiene la speranza che i suoi nipoti nasceranno bianchi, anche se ammette che probabilmente è improbabile.
Anders cerca di far fronte all’essere visto in modo diverso dai colleghi e dai clienti abituali.
È Oona, tuttavia, con una silenziosa presa di coscienza interiore che offre la risposta più toccante.
Oona è in lutto per suo fratello morto per overdose.
Il processo attraverso il quale affronta il lutto del fratello e, allo stesso tempo, la perdita del suo sé precedente, diventa rivelatore.
Decide di affrontare il suo passato, riguardando vecchie fotografie, tornando nei luoghi di ritrovo familiari, raccontando storie di persone che ha perso ed accettando al contempo la necessità di un cambiamento.
C’è un passaggio molto bello in cui Anders accompagna Oona al cimitero dove è sepolto suo fratello.
Entrambi parlano del lutto come parte di un profondo senso di trascendenza.
Anders e Oona si scontrano con il loro disorientamento, e così facendo chiedono al lettore di confrontarsi con i costrutti pervasivi così seduttivi nel mondo reale, incluso il concetto di razza.
Hamid resiste alle risoluzioni semplicistiche.
Nel rendere strano ciò che non troviamo familiare, ci ricorda la nostra incapacità di andare oltre le nostre visioni limitate l’uno dell’altro.
Le verità più dolorose dell’auto accettazione, dell’amore e di un serio impegno per la nostra immaginazione formulano le uniche risposte utili.
Questa chiarezza è il grande dono del romanzo.
Nelle mani di uno scrittore così abile come Mohsin Hamid, una storia bizzarra si muove ben oltre qualsiasi semplice “e se”.
Mentre i bianchi diminuiscono e si ritirano in città, il romanzo si muove in un crescendo di speranza.
Al lettore non viene mai suggerito che cosa pensare, ma è soltanto sollecitato a pensare e riflettere.
Lo stile narrativo diretto e semplice rende la lettura piacevole.
Non è facile smettere di leggere dopo aver aperto la prima pagina così come non è facile smettere di pensare.
Un racconto sul senso di comunità, guarigione e speranza spesso sepolti sotto l’orrore.